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Prendi questa mano, chip reader: il futuro degli impianti sottocutanei

Pagamenti smart, con carta, per evitare di portare contanti nel portafoglio. Tuttavia, non si è del tutto fuori pericolo e la soluzione potrebbe essere un microchip impiantato sottopelle.

Le promesse e le polemiche sullo sviluppo di soluzioni di pagamento e identificazione tramite microchip impiantati nel corpo tornano ciclicamente di moda: ma a che punto siamo con la diffusione di questa tecnologia?

Derek Peterson, il direttore tecnologico della telco americana Boingo Wireless, non ha bisogno di biglietti da visita. Non perché sia particolarmente famoso, ma perché per scambiare le sue informazioni di contatto con un potenziale cliente gli basta avvicinare la mano allo smartphone del suo interlocutore. Già diversi anni fa, il dirigente si è fatto impiantare sotto pelle un microchip NFC in cui ha salvato le sue informazioni di contatto. Non funziona sempre perfettamente, e spesso Peterson deve chiedere all’interlocutore di scaricare un’app sullo smartphone per poter leggere correttamente i dati, ma è certamente un’ottimo spunto di conversazione. 

Come ha spiegato di recente al Wall Street Journal, Peterson ha comprato il suo microchip dalla Dangerous Thing, piccola azienda americana specializzata nella vendita di impianti sottocutanei e accessori per il biohacking. L’inserimento del chip – dalla forma di una piccolissima capsula – è una procedura minimamente invasiva: basta una siringa e qualcuno che abbia dimestichezza con aghi e iniezioni. Meglio se un medico o un infermiere, ma sono sempre di più i tatuatori o esperti di piercing, ad esempio, che offrono questo tipo di servizi. 

Ma qual è il vantaggio di portare con sé un chip sotto pelle? Intanto la possibilità di lasciare a casa i biglietti da visita, appunto, ma anche le chiavi della macchina o le carte di credito: tutto quello che si può fare con il chip NFC di uno smartphone si può – potenzialmente – fare anche con un impianto sottocutaneo. Uno degli usi più promettenti sono infatti i pagamenti digitali: pensate a quello che già possiamo fare con un Apple Watch o uno smartwatch Android accoppiati ad Apple Pay o Google Pay, ma senza la necessità di indossare alcun dispositivo. 

Il parallelo con i sistemi pagamento dei due giganti della tecnologia, però, è utile soprattutto per capire come mai questo tipo di applicazione dei chip iniettabili non abbia ancora davvero ancora preso piede. Duplicare il microchip di una carta di credito in un chip NFC sottocutaneo non è un’operazione semplice. Apple Pay e Google Pay agiscono infatti da garanti dei pagamenti, grazie a sistemi complessi che rispettano i parametri di cifratura e sicurezza necessari a garantire il funzionamento dei dispositivi come terminali univoci di pagamento. Un Apple Watch o un Samsung Watch, in altre parole, non clonano una carta di credito, ma ospitano un token sicuro e cifrato che viene riconosciuto come valido dai circuiti di pagamento. 

Ad oggi soltanto una startup Polacca con sede a Londra, Walletmor, è riuscita ad offrire un chip che funziona in maniera analoga. Il sistema si appoggia al circuito iCard per i pagamenti smart, ed è compatibile con tutti i maggiori provider di pagamenti. Il chip di Walletmor è disponibile in Europa per 200€, ma nonostante il prezzo basso dal lancio dell’anno scorso a oggi l’azienda ha venduto soltanto un migliaio di impianti. Non sono pochi nel mercato di nicchia dei microchip sottocutanei, ma certamente non rappresentano ancora una massa critica per l’adozione di questa tecnologia.

Non c’è solo un limite tecnologico però alla diffusione di questo tipo di soluzioni. L’idea di impiantare un chip sotto pelle, che serva per pagare o per portare con sé informazioni personali, genera ancora fortissime reticenze e rifiuto sociale. La pandemia e le polemiche sul tracciamento delle scelte vaccinali individuali, per di più, hanno peggiorato ulteriormente la percezione di una tecnologia che per molti, non necessariamente cospirazionisti, si candida ad essere il sistema di controllo digitale perfetto.

Il dibattito sulla diffusione dei microchip sottocutanei non è nulla di recente. Già nel 2017 la decisione di un’azienda del Michigan di dotare i propri dipendenti di microchip sotto pelle in sostituzione dei badge aziendali aveva scatenato un’ondata di critiche a livello globale. In quell’occasione Usa Today aveva sentenziato, giocando un po’ sul sensazionalismo, che tutti – in un prossimo futuro – ci piegheremo inevitabilmente all’uso di un chip sottocutaneo. “Succederà a tutti”, aveva spiegato in un’intervista la professoressa di sociologia Noelle Chesley. “Non quest’anno e non nel 2018. Non alla nostra generazione, ma certamente a quella dei miei figli”. 

Cinque anni più tardi non è cambiato molto, e quella dichiarazione è ancora valida. Tuttavia esempi come quello di Walletmor ci dimostrano che l’interesse per lo sviluppo di queste tecnologie esiste, se non altro da parte dei venture capitalist. Aspettiamoci dunque di veder nascere nei prossimi anni nuove startup che proveranno a promuovere sistemi di pagamento o di accesso digitale basati sui microchip sottocutanei.

La svolta arriverà probabilmente quando, superata una massa critica di utenza e di early adopter, anche i grandi colossi dei pagamenti e del tech entreranno nella partita. Secondo alcuni analisti le tempistiche non saranno brevi, ma l’ascesa di queste tecnologie sarà comunque inevitabile. Si partirà con il “chipping” dei dipendenti delle grandi aziende e poi ci saranno gli early adopter che abbracceranno da subito la tecnologia e contribuiranno a liberarla dallo stigma sociale che ancora l’accompagna. Le previsioni più caute parlano di una cinquantina d’anni: nel 2070, cambiamento climatico permettendo, avere un chip sotto pelle sarà la normalità.

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